Quel funambolismo tra i monumenti, sempre più i giovani che a Siracusa praticano il Parkour, sport estremo importato dalla Francia

Ginocchia sbucciate e fratture rimarginate. E una raccolta di referti da far invidia al più compulsivo dei collezionisti. Perché chi pratica parkour, sport di strada nato in Francia negli anni ‘90 che consiste nell’aggirare e saltare nel modo più efficiente possibile un ostacolo, è consapevole di finire, prima o poi, al pronto soccorso. Di divenirne «un cliente abitudinario», come ci svela ironizzando Salvatore La Mantia, 19 anni, tecnico informatico
di Villasmundo con la passione per questa “disciplina”. «Da piccolo – racconta La Mantia – scavalcavo i muri, così per gioco. Con naturalezza. Navigando in internet sono entrato poi a conoscenza del Parkour come disciplina che si compone di svariate tecniche, che ho potuto visionare su youtube. Il passaparola su internet mi ha poi permesso di conoscere altri ragazzi con la mia stessa passione. Da allora passiamo interi pomeriggi ad allenarci, tra un salto e una risata. Ci tengo a precisare però che non è solo mero divertimento o puro esibizionismo. E neanche una questione di fascino del pericolo. E’ – oserei dire – una necessità. Di adattamento e di sopravvivenza. Di abitudine del proprio corpo all’ambiente. A sfruttarlo al meglio, cercando di annientare progressivamente la paura del vuoto».

Usando le parole del fondatore David Bell, per capire cosa è il parkour «si deve pensare alla differenza che c’è tra quello che è utile e quello che non è utile in eventuali situazioni di emergenza. Solo allora potrai capire ciò che è parkour e ciò che non lo è». Spostandoci per le vie desolate e settembrine di Siracusa andiamo in cerca dei traceurs (così vengono chiamati i praticanti di parkour). Li intercettiamo alla riviera Dionisio Il Grande, dove sono soliti ritrovarsi per l’allenamento nel primo pomeriggio. Incontriamo Luigi Guarnieri, diciassettenne di Siracusa, velocista di atletica leggera che ama alternare la corsa su strada a quella sui tetti. «Ci ritroviamo qui 3-4 volte alla settimana – spiega – lontano da materassini e palestre. Il Parkour nasce in strada, non avrebbe dunque senso praticarlo al chiuso. Servono coraggio ed equilibrio. Nient’altro. La stazza conta poco. Alleniamo infatti anche ragazzi più in carne. Perché – tenetelo bene a mente – l’agilità parte prima di tutto dal cervello. Solo dopo aver raggiunto una maggiore coscienza mentale sarete pronti per il Parkour. A saltare, librandovi in aria, assaporando l’ebbrezza del vuoto. Ma – raccomanda Luigi – attenti a cascare. Evitate di saltare se prima non siete pienamente convinti. Rischierete seriamente di farvi male, senza che nessun comodo materassino attutirà la vostra caduta».

Passione e duro allenamento si celano dunque dietro una disciplina metropolitana che non ha nulla di improvvisato, come erroneamente spesso si pensa, che si compone di diverse
tecniche per la buona riuscita di spettacolari salti a mezz’aria, piroette e capriole. «Il salto da un punto all’altro – spiega Ermes, traceur – si chiama precision. Esistono altri varianti, come il monkey, il reverse, lo speed, il tic tac, il wall flip. Sono tutte tecniche in prestito dal free running – disciplina che viene erroneamente confusa con il parkour, meno funzionale e più estetica – come anche il roll, salto e capriola a mezz’aria prima dell’arrivo al suolo. Personalmente preferisco il king kong, una tecnica che ti permette di scavalcare agilmente un ostacolo abbastanza lungo, o il dash, tecnica di salto sopra l’ostacolo con l’aiuto delle mani. Considerare il Parkour solo uno sport – aggiunge Ermes – sarebbe comunque troppo riduttivo. E’ un nuovo modo di pensare». Una vera e propria applicazione sociale che insegna ai giovani il rispetto per se stessi e per l’ambiente circostante. «Uno stile di vita che – dice Ermes – insegna a indagarsi dentro». Solo dopo aver raggiunto una maggiore autoconsapevolezza, il traceur “virtuoso” riesce ad ascoltare i segnali del proprio corpo. A interpretare le proprie sensazioni e i propri limiti. A vincere le proprie paure.

Intanto Simone si prepara al salto. Ha 17 anni e veste all’americana, con larghi pantaloni da hippopparo tenuti rigorosamente sotto il cavallo e una t-shirt “imbrattata” da scarabocchi psichedelici. Tutto tace intorno. Persino il ticchettio del tempo sembra rallentare. Niente riesce a distrarlo da quella disciplinata e raggiunta astrattezza. Piega poi le ginocchia, cercando di tirare in avanti il busto, in attesa di saltare dal muretto della riviera alto 4 metri. Un’ultima assestatina al ciuffo e alle cuffie con la musica rap che impazza nelle orecchie. E il cuore che pompa adrenalina. La concentrazione è al massimo. Subito Simone si libra di scatto nell’aria eseguendo un doppio avvitamento. Sospeso in quel cielo limpido e cristallino che, secondi dopo, rimpiangerà la sua caduta. Vinto dalla gravità, poggia poi i piedi a terra, soddisfatto per la propria prestazione. «Dalle acrobazie su strada – rivela Simone, con la voce ancora goffa per l’emozione – mi sono ritrovato a quelle per aria, a saltare queste altezze. Inseguito più volte dalla volante dei vigili mentre saltavo da un tetto all’altro. Le persone ci credono folli. Penso che folle sia chiunque agisca senza pensare alle conseguenze delle proprie azioni. Quando salto sono consapevole dell’altezza. Se non lo fossi, rischierei di fallire. E di farmi seriamente male. E’ tutto un “gioco” di concentrazione. Di mente e tecnica. Mai – e vi serva come insegnamento per la vita – dare adito alle insicurezze. Farsi vincere dalle perplessità. Tenetelo bene a mente. Pensate solo a lanciarvi nel vuoto, senza nessuna esitazione. Alla riconquista progressiva di voi stessi. Solo dopo – salvo incidenti di percorso – potrete dire di aver vissuto appieno la vostra vita». O di essere finiti, ancora una volta, all’ospedale.

SALVO GANCI

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La Sicilia, Siracusa e provincia, 3 settembre 2014,  pag.24

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